1.
Mercoledì 3 agosto, in una Bologna calda e assolata, si è tenuta avanti al Tribunale del riesame l’udienza per l’annullamento delle misure cautelari applicate dal Tribunale di Piacenza a quattro sindacalisti del Si Cobas e a due dell’USB. La discussione è durata quasi cinque ore ed è stata per tutto il tempo accompagnata da cori e slogan del numeroso e partecipato presidio indetto dal Si Cobas davanti alla sede del Tribunale, a dimostrazione che c’è una comunità operaia che non accetta che si definisca il proprio sindacato un’associazione per delinquere e i suoi dirigenti dei criminali. Venerdì 5 agosto il Tribunale bolognese ha accolto quasi integralmente le richieste delle difese, annullando l’ordinanza applicativa nella parte in cui riconosceva la sussistenza di due associazioni per delinquere e applicava ai sei sindacalisti la misura degli arresti domiciliari.
Il contesto in cui si colloca la vicenda giudiziaria è stato ampiamente analizzato dai giornali e da numerosi articoli usciti su riviste o siti web. Tra i tanti, vale la pena di segnalare almeno quelli di Giovanni Iozzoli (https://www.carmillaonline.com/2022/07/22/fronte-dellinterporto/) e di Francesco Massimo e Alberto Violante (https://jacobinitalia.it/dallo-statuto-dei-lavoratori-allo-statuto-albertino/), che spiegano come quello della logistica sia divenuto negli anni uno dei settori economici avanzati del capitalismo internazionale, caratterizzato da grande sfruttamento della forza lavoro, bassi compensi, lavoro in nero, evasione fiscale e contributiva, operazioni di riciclaggio di denaro sporco. La situazione è andata progressivamente migliorando grazie alle lotte avviate negli ultimi 10-12 mesi dai sindacati di base, vertenze aspre, spesso con seguiti giudiziari, caratterizzate in più occasioni da aggressioni ai lavoratori da parte di squadracce di picchiatori foraggiati dal padronato o da sfondamento dei picchetti da parte di camionisti, che hanno provocato a Piacenza e Novara la morte di due lavoratori, Abd Elsalam Ahmed Eldanf, nel 2016, e Adil Belakhdim, nel 2021.
Qui vorrei occuparmi, in prosecuzione del lavoro di analisi di provvedimenti giudiziari emessi per fatti legati alla conflittualità sociale (https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/), dell’ordinanza applicativa con cui il Giudice del Tribunale di Piacenza ha originariamente applicato le misure cautelari.
2.
Come sempre più spesso capita, lo sviluppo argomentativo contenuto nel provvedimento ricalca esattamente quello della richiesta della Procura di Piacenza. Cambiano l’ordine delle questioni trattate e alcuni riferimenti giurisprudenziali, ma l’impianto e il contenuto delle valutazioni espresse da GIP e PM è immediatamente sovrapponibile, a dimostrazione, a seconda dei punti di vista, o di una scarsa autonomia di valutazione del primo o di una straordinaria coincidenza di vedute. Fa difetto nell’ordinanza solo quel surplus di polemica che traspare dall’atto della Procura, indicativo di un’ostilità e di una tensione emotiva non molto in sintonia con il ruolo di imparzialità, che si ricava dai connotati pubblicistici che il codice di rito ritaglia sulla figura del magistrato inquirente. In alcuni passaggi della corposa richiesta di 400 pagine del PM, si trovano, infatti, affermazioni che stupisce incontrare in un provvedimento giudiziario. Ad esempio, la legittima protesta verbale diffusa con un video da uno degli indagati (arrestato e poi scarcerato dal Tribunale del riesame di Bologna circa un anno fa, per un’altra inchiesta della Procura piacentina) viene definita una «minaccia da strada sguaiata e aggressiva», espressa oltretutto da un soggetto che avrebbe la pretesa di porsi «sullo stesso piano degli uomini dello Stato che garantiscono la legalità», oppure le manifestazioni di solidarietà con arrestati appartenenti al sindacato vengono qualificate come «aggressioni a soggetti istituzionali, come la stessa magistratura» a cui parteciperebbero soggetti «strumentalizzati» che, ovviamente, agiscono «nella più totale ignoranza dei fatti e della realtà».
3.
Il lungo capo di imputazione relativo al reato associativo contestato ai sindacalisti del Si COBAS (quasi un racconto breve) fa inizialmente riferimento a reati commessi nel corso delle manifestazioni sindacali (picchetti, blocchi stradali ecc.), per poi concentrarsi sulla rivalità/dissidio con l’USB e sulla volontà di imporsi come organizzazione maggioritaria nel comparto delle logistica, descrivendo infine ulteriori attività poste in essere dallo stesso sindacato «per alimentare il conflitto all’interno dei magazzini […] allo scopo di acquisire e implementare i consensi dei lavoratori».
Nell’evidente impossibilità, nell’anno di grazia 2022 (e non 1922), di prospettare un’equazione per cui un sindacato può essere considerato un’associazione per delinquere, gli inquirenti hanno messo in campo un meccanismo esegetico che suona più o meno così: dietro lo schermo dell’attività sindacale lecita, si sarebbe formata un’associazione per delinquere che avrebbe operato come gruppo di potere per finalità proprie, anche di lucro e di tutela dei propri iscritti, incrementando ad arte la conflittualità con la controparte padronale al fine di ottenere continue concessioni, «anche indebite contrattualmente», maggiori iscrizioni al proprio sindacato e beneficiare di somme di denaro derivanti dai tesseramenti e dalle conciliazioni. Si tratta di uno schema – quello del nucleo criminale costituitosi all’interno di un’associazione lecita – già visto all’opera di recente anche a Torino nel procedimento contro gli appartenenti ad Askatasuna (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/07/13/costruire-il-nemico-askatasuna-i-no-tav-il-conflitto-sociale/). La particolarità del caso in esame è che esso si appoggia costantemente a giudizi di valore, in misura che appare inconsueta per un provvedimento emesso da un Tribunale. Il GIP – ma, con ben altra foga argomentativa, la Procura prima di lui – arricchisce le proprie osservazioni con valutazioni cariche di disprezzo verso i sindacati di base, incaricandosi addirittura, facendosi storico, di distinguere un periodo “buono” delle vertenze sindacali del Si COBAS, che precede il 2014, da uno cattivo successivo a tale data (tanto da spingere, a sua volta, la Procura a sostenere, una sua trasformazione da «forza rivoluzionaria in potere consolidato»), poi ulteriormente peggiorato dal 2016 con la “sfida” dell’altra organizzazione, la USB.
Ora, nell’ambito delle decisioni giudiziarie la sensibilità valoriale del singolo magistrato dovrebbe avere un ruolo residuale. L’ermeneutica contemporanea ci ha però insegnato che nell’ambito di tutti processi cognitivi la propria pre-comprensione del mondo esercita un ruolo fondamentale. Dunque, non si può ingenuamente pretendere che il magistrato non sia influenzato, ferma restando la sua soggezione alla legge, dalle proprie convinzioni. Nel nostro caso, però, ciò che stupisce non è tanto l’esternazione di un proprio punto di vista ben definito da parte degli inquirenti e del GIP, quanto il fatto che emerga tra le pagine dell’ordinanza un’idea pre-moderna del rapporto tra diritto e morale, una concezione che si può definire, citando Luigi Ferrajoli, «ontologico-etica o naturalistica del reato come male quia peccatum e non solo quia prohibitum».
Per esemplificare, in più passaggi l’ordinanza stigmatizza l’utilizzo come semplici «pedine» dei lavoratori da parte del sindacato, i rallentamenti che definisce «pretestuosi» dell’attività lavorativa, l’alimentazione da parte dei dirigenti di «reti clientelari». Si tratta in larga parte di mere illazioni o di giudizi profondamente parziali e non corrispondenti alla realtà, che interpretano comportamenti tipici del sindacato alla luce del teorema accusatorio di partenza, con un curioso ribaltamento del meccanismo di valutazione probatoria e di ricostruzione causale dell’accaduto. Tali comportamenti o costituiscono fatti di rilievo penale, e come tali, allora, vanno contestati e perseguiti, o sono invece critiche, censure che poco hanno a che fare con un provvedimento giudiziario. Il paradosso è invece che, tra tutti i reati scopo dell’associazione contestati nei 143 capi di incolpazione successivi a quelli relativi ai reati associativi, non ve n’è uno che riguardi reati a sfondo patrimoniale, illeciti arricchimenti, malversazioni a danno dei lavoratori o quant’altro. Ne consegue che tutte le argomentazioni aventi a oggetto tali questioni, disseminate nel corso dell’ordinanza (radicalmente contestate, va detto, da tutti gli indagati), rimandano a condotte del tutto lecite e al più deprecabili, dal punto di vista del giudice e degli inquirenti, sul piano del costume o della morale.
In realtà, quelle che l’ordinanza definisce attività svolte per indebite ragioni del sodalizio criminoso, che nulla hanno a che fare con la gestione dell’attività sindacale, appaiono, come hanno spiegato dettagliatamente gli indagati nelle loro spontanee dichiarazioni rese nel corso degli interrogatori di garanzia, condotte connesse al funzionamento effettivo di ogni sindacato; valgano come esempio i finanziamenti attraverso il tesseramento e le conciliazione o la tutela della posizione lavorativa dei propri iscritti, finanche la concorrenza con altre compagini sindacali per ottenere più aderenti. Stesso discorso vale per le concessioni strappate ai datori di lavoro, presentate dagli inquirenti quasi che si trattasse di attività di tipo estorsivo, come se uno dei compiti principali di un sindacato non fosse proprio quello di organizzare dei conflitti collettivi e costruire delle vertenze per strappare alle multinazionali del settore migliori condizioni di lavoro e di vita. Nel capo di imputazione si arriva a stigmatizzare la volontà del Si COBAS di «imporsi alla proprietà anche per le scelte a questa squisitamente riservate, come appunto l’organizzazione del lavoro», dimostrando una volta di più un’idea delle relazioni sindacali non solo obsoleta, quanto soprattutto di stampo padronale.
L’asserito ruolo di coordinamento criminale di un dirigente del sindacato viene richiamato nell’ordinanza con una citazione, che il giudice definisce «eloquente», delle dichiarazioni rese dall’amministratore delegato di Ikea Italia, secondo cui il sindacalista gli chiese di adoperarsi per il reintegro di alcuni lavoratori licenziati da alcune cooperative appaltatrici per ragioni disciplinari, promettendo a sua volta lo sblocco di un’attività di picchettaggio. Insomma, ciò che sconcerta il GIP è che un sindacato faccia il sindacato, che si occupi, cioè, della tutela degli operai.
4.
L’ordinanza individua poi un ulteriore elemento sintomatico dell’esistenza di una struttura associativa nella cosiddetta “cassa di resistenza”, alimentata dalle conciliazioni, dalle affiliazioni al sindacato e perfino da versamenti fatti per pagare le spese di un processo istruito in passato contro il dirigente del Si COBAS Aldo Milani, poi assolto con sentenza definitiva. Qui la parzialità della ricostruzione si mescola all’inconsapevolezza. Tutti i sindacati, i movimenti sociali, ma anche molte associazioni da sempre vantano casse di resistenza con cui far fronte alle spese, specie per gli aderenti colpiti dalla “repressione”. Funziona così da un paio di secoli. La storia del movimento operaio e delle sue tante diverse declinazioni è sempre statA caratterizzata da forme di solidarietà collettiva. Il fatto che la memoria di quelle vicende e dei loro profili solidaristici sia evaporata è evidentemente un segno dei tempi. In ogni caso, non si comprende di che si stupisca il giudice. Perfino i sindacati, quelli riconosciuti sul piano istituzionale, che la stampa mainstream ritiene seri e responsabili, si approvvigionano attraverso i versamenti degli iscritti, le conciliazioni eccetera e hanno delle casse di resistenza.
5.
Va detto, poi, che tutti gli episodi richiamati vengono citati nell’ordinanza senza che se ne spieghi la loro rilevanza per individuare gli elementi costitutivi del reato di associazione per delinquere. Anche in questo caso (sembra quasi una nuova tendenza regressiva di molti magistrati impegnati sul cautelare) il giudice afferma ma non motiva. La motivazione di un provvedimento giudiziario non deve esser “narrativa”, ma “dimostrativa”: non può risolversi, come avviene in questo caso, nella descrizione delle convinzioni del giudice, ma deve approdare a una giustificazione logica delle sue valutazioni. Il provvedimento, in altre parole, deve offrire un percorso razionale e argomentativo controllabile, che spieghi come dalle risultanze acquisite si raggiunga uno specifico risultato probatorio. Nel caso di specie, invece, il giudice, dopo aver raccontato una serie di episodi a suo dire sintomatici del quadro accusatorio, non spiega quali siano i criteri di inferenza che gli abbiano consentito di passare dai dati probatori acquisiti all’esito finale, relativo alla qualificata probabilità di esistenza di un’associazione criminale.
In realtà, la ricostruzione proposta – vale a dire la creazione nel corpo sano del Si COBAS di un nucleo che a fini reconditi ne strumentalizza, per i propri interessi, l’azione – sembra funzionale alla messa sotto accusa dello stesso sindacato per la sua attività nei magazzini della logisitica, per la sua irriducibilità a una gestione concordata e non conflittuale delle condizioni di lavoro. Non è un caso che il procedimento prenda le mosse, come ammette candidamente il GIP, da alcune richieste di intercettazioni, prontamente autorizzate dal Tribunale di Piacenza, in cui gli inquirenti non avevano ancora messo a fuoco il teorema che poi prenderà forma. Lo strumento giuridico che consente di intercettare i sindacalisti è la contestazione di un reato associativo, che ancora una volta serve per mantenere un monitoraggio, un controllo continuo sull’obiettivo investigativo prescelto. Non è un caso che, allorché deve definire i ruoli del sodalizio criminale, l’ordinanza compia un’operazione di tipo traslativo, mescolando il ruolo legittimo dentro il sindacato dei singoli militanti con quello di rilievo penale nell’ambito del comparto associato. Non è di nuovo un caso che il procedimento nasca sulla base di annotazioni di polizia e di denunce della controparte aziendale che lamentano l’eccesso di picchetti e scioperi, dunque con un’impronta di partenza che si trasforma poi strada facendo, per approdare surrettiziamente nella teoria del nucleo criminale che si impadronisce della direzione del sindacato per scopi illeciti personali.
Ciò che appare atipico e inconsueto nella vicenda piacentina sono la combattività e la capacità conflittuale del Si COBAS (e dell’USB), che costituiscono, queste sì, un’eccezione in un panorama sindacale spesso quieto e omologato. La stessa ordinanza è costretta a riconoscere che le agitazioni, i picchetti, gli scioperi condotti dal Si COBAS «sono serviti […] a difendere i diritti dei lavoratori», ma ci aggiunge, a più riprese, quasi ossessivamente, la locuzione «solo in parte». È questo il vero tema di cui si discute: l’anomalia sindacale nel settore della logistica che si intravede dietro lo schermo di un presunto sodalizio criminale, di cui non si comprendono la struttura e le finalità. Occorrerà tenerlo a mente quando inizierà il vero e proprio processo.