Comunicato di Insorgiamo con i lavoratori GKN

Comunicato di Insorgiamo con i lavoratori GKN

Riprendiamo il seguente contributo di Insorgiamo con i lavoratori GKN.

Con questo testo vogliamo esprimere tutta la nostra solidarietà ai compagni e alle compagne di CSOA Askatasuna colpiti dall’ennesima inchiesta dove Questura e Procura fanno uso di associazione a delinquere applicato alla sfera della lotta politica così come già accaduto in molte altre città tra cui Napoli, Genova, Bologna e la stessa Firenze.

Sappiamo benissimo che la lotta ci mette davanti al necessario tentativo di conquistare la legittimità sociale delle nostre pratiche ed azioni su un piano di massa.

Sappiamo anche che la legalità è la traduzione dei rapporti di forza tra le classi in leggi e norme.

Diventa conseguenza immediata che legittimità e legalità siano in contraddizione e che alla lotta corrisponda un prezzo da pagare in termini repressivi.

All’interno dell’azione repressiva quella legittimità è la base su cui si costruisce la solidarietà verso i compagni e le compagne messe sul banco degli imputati.

L’applicazione del reato di associazione a delinquere è utile a Questura e Procura per continuare a contrapporre alla solidarietà elementi divisivi, minare la legittimità costruita intorno alla lotta attraverso una gestione politica improntata alla criminalizzazione e alla paura.

La scelta di applicare tale reato associativo si determina attorno alla costruzione di un teorema: una serie di singoli reati vengono messi a sistema e posti sotto l’ombrello dell’esistenza di un presunto vincolo associativo.

Ciò permette alla Questura di aver mandato dal GIP di procedere con strumenti quali intercettazioni telefoniche e ambientali, altri strumenti di controllo digitale e prolungare le indagini incentivando la logica dell’inchiesta permanente e in seconda di disporre misure cautelari.

La cornice all’interno della quale si riadegua la strategia repressiva è quella della competizione imperialista e della guerra, di cui i nostri territori rappresentano il fronte interno, da anni investito da tutte quelle misure che stati e governi reputano necessarie per il controllo sociale.

All’interno di questo contesto abbiamo il continuo inasprimento della legislazione repressiva e antiterrorismo che negli ultimi 30 anni ha caratterizzato l’Italia, dove l’accentramento dei poteri e la generalizzazione del controllo si è accompagnato con la specializzazione della repressione.
L’emergenza, già ben oliata nel ciclo di lotte degli anni ‘70-’80, è stata leva di consenso attraverso il quale si sono legittimati tutti i passaggi che hanno segnato questa continua ristrutturazione: il 41 bis, i reati associativi, le leggi “antimmigrazione”, i CIE e i provvedimenti extragiudiziali, le leggi “antistadio”, la militarizzazione dei territori colpiti da calamità naturali e di quelli ritenuti di “interesse strategico” (Muos, Tav, discariche ieri, rigassificatori e basi probabilmente domani…), la progressiva erosione di agibilità e libertà in cambio di “sicurezza”.

Questa è una delle lenti che dobbiamo usare anche per andare oltre la superficie di leggi come il Jobs Act che in realtà agiscono proprio sul piano del controllo e della repressione, dotando i padroni di tutti gli strumenti necessari per agire, in modo preventivo, contro ogni tentativo di organizzazione dei lavoratori che esca da un livello di compatibilità con le esigenze produttive.

Lottare contro la repressione significa comprendere i meccanismi su cui essa fa leva per metterci a tacere e isolarci, innescare divisioni e percorsi de-solidaristici. Per questo è importante gettare lo sguardo all’interno delle mura carcerarie dove i livelli di divisione e differenziazione che oggi caratterizzano il sistema carcerario sono i medesimi che la controparte ripropone al di fuori. Bisogna comprendere come il carcere sia emblema e punta avanzata della repressione stessa e di un sistema diviso in classi.
Dove la controparte cerca di isolare, dividere e differenziare per noi il compito è quello di riallacciare legami e rapporti. Questo lo vediamo nelle carceri ma anche nella quotidianità dei quartieri popolari o sui posti di lavoro, dove un lungo percorso di spoliticizzazione e disimpegno di massa dà i suoi frutti amari nella crescita di sentimenti egoistici, razzisti e xenofobi, complici delle politiche reazionarie e guerrafondaie.

La solidarietà è quindi essa stessa uno strumento e una pratica di lotta. La solidarietà dev’essere una pratica capace di tenere insieme un ragionamento complessivo per sapere contrapporsi alla strategia repressiva, altrimenti corriamo il rischio di relegarla ai soli benefit, importanti ma non sufficienti, e esprimerla solo nei confronti dei propri affini e delle pratiche che riconosciamo come nostre.
La solidarietà invece, partendo dal carcere e al di fuori di esso deve tenere insieme tutti i soggetti colpiti dalla repressione: dai prigionieri politici fino ai cosiddetti comuni, lavoratori, studenti, immigrati, proletari e così via…

L’NSORGIAMO non è legalità ma legittimità.

I partigiani stessi erano definiti dallo Stato fascista banditi e terroristi perché contrapponevano la legittimità della lotta di liberazione alla legalità imposta dal Governo fascista prima e dall’occupante nazista poi.

Non dobbiamo poi mai dimenticare che anche noi, ancora oggi, facciamo i conti proprio con il Codice Rocco che lo Stato democratico ha addirittura inasprito in certe sui parti: basti pensare ai Decreti sicurezza e per esempio al blocco stradale, punibile con una pena fino a 6 anni di carcere e disposto proprio come elemento antioperaio e repressione di scioperi e picchetti dei cancelli.

La CONVERGENZA è il tentativo di abbandonare ogni via settaria e minoritaria alla ricerca di legami solidaristici e di mutuo soccorso sempre più forti e duraturi.

È la possibilità di ribaltare i rapporti di forza e l’opportunità di rafforzare la solidarietà stando a fianco dei compagni e delle compagne che durante il cammino verso una società più giusta troveranno sulla loro strada le aule di tribunale.
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