Riflessione sulle operazioni repressive nei confronti dei militanti di Askatasuna a Torino e di esponenti del mondo del sindacalismo di base a Piacenza
Fine luglio torrido ma non per il braccio armato dell’apparato repressivo dello Stato.
A Piacenza sei dirigenti sindacali di Si Cobas e di Usb sono stati arrestati con le accuse di associazione a delinquere, violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e interruzione di pubblico servizio. A Torino, il Tribunale del Riesame, su richiesta della Procura, concede 11 misure cautelari a militanti del centro sociale Askatasuna di nuovo per associazione a delinquere, violenza privata, rapina e sequestro di persona.
Due procure della Repubblica, Piacenza da un lato e Torino dall’altro, si ritrovano così ad essere accomunate da un impianto inquisitorio similare: colpire partendo per prime, dipanando arresti e misure cautelari con un unico fine, quello di fermare due realtà che danno vita a rivendicazioni sindacali all’interno di contesti produttivi strategici, come lo è Piacenza per la logistica, e a rivendicazioni sociali-ambientali, come nel caso torinese, associato in parte alle lotte contro la grande opera inutile del Tav in Val di Susa.
I ricordi legati ai ‘teoremi giudiziari’ che, nel passato, hanno delineato a tinte fosche presunte ‘associazioni sovversive’ contro l’ordine costituzionale dello Stato, sono ancora molto vividi. Eppure, nonostante siano passati oltre quarant’anni, nel 2022, avremmo dovuto ritenere sorpassati determinati costrutti volti esclusivamente a depotenziare, a suon di carcerazione preventiva, conflittualità e libero dissenso al “pensiero dominante”.
Gli strumenti utilizzati dalle toghe, ieri come oggi, principiano dal soffocare le azioni politico-sindacali sotto il cappello del reato associativo. Il 416 c.p. “associazione per delinquere”, è un’eredità che il fascismo prese in prestito dal precedente Codice Zanardelli e che consacrò, ampliandolo, nel codice Rocco del 1930; opera di un legislatore attento a tutelare tutte le eventuali e nascenti forme di associazioni contrarie al regime, oltre che a sgominare quelle forme di criminalità comune, non utili ad un autoritarismo fondato su ordine e disciplina.
Nello specifico, la norma prevede che quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni. Inoltre, per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni.
Tale costituisce un’esplicita deroga all’art.115 del medesimo codice, quando prevede la non punibilità del mero accordo per commettere un delitto, qualora quest’ultimo non venga commesso. Siamo dinanzi ad una tradizionale forma di diritto penale emergenziale che consiste nella anticipazione della soglia di punibilità: ciò che viene punito sono comportamenti che sono – potenzialmente – molto lontani dalla realizzazione di fatti offensivi. L’esistenza di un’associazione e la partecipazione alla stessa sono dunque, per ciò solo, idonee a configurare un reato. La motivazione di questa longa manus che travalica ogni confine del buon senso è giuridicamente spiegabile per la “gravità del pericolo” in cui viene messo il bene giuridico tutelato dalla norma, e quale bene se non quello che, per eccellenza, era sovraordinato a tutti i restanti durante il fascismo: l’ordine pubblico.
L’associazione per delinquere, poi, nei primi anni ‘80, in quanto inappropriata a ricomprendere in essa il fenomeno mafioso, cedeva il passo ma al contempo diveniva il paradigma per la proliferazione della legislazione antimafia per antonomasia (416 bis ndr.).
Ma venendo all’oggi, questo caposaldo della repressione penale si atteggia a grimaldello per punire quanti più attivisti e militanti possibili vicini ad un contesto di lotta, così come accaduto con il movimento dei disoccupati a Napoli e con quello di lotta per la casa a Roma.
Ma con le azioni repressive dei giorni d’oggi, i dubbi già monumentali relativi a quella fattispecie divengono granitici. Come possono innanzitutto delle forme costituzionalmente riconosciute, come quella del Sindacato (art. 39) e delle associazioni non riconosciute (art. 18), trasformarsi artificiosamente in strutture illegali e dedite a comuni programmi criminosi?
Siamo dinanzi ad un sillogismo tanto fallace, tanto pericoloso. La magistratura confonde volutamente i piani ideologici e di rivendicazione sindacale con scopi che definisce addirittura di intrinseca illiceità.
Ed è con la malizia negli occhi di chi guarda e la volontà di reprimere che, forme di contrattazione veementi, picchetti dinanzi alle aziende, addirittura scioperi o comunicati stampa, assumono contorni criminogeni, il tutto dopo attenti copia-incolla pretestuosi e fuori dal contesto di riferimento.
Siamo dinanzi ad una deriva da psicopolizia, laddove indagini e intercettazioni non sono il mezzo per sgominare reali crimini, ma strumento esclusivo per la carcerizzazione dei militanti di movimenti di lotta.
Non resta che ritornare in piazza, in piena solidarietà a tutti gli arrestati, per ribadire che l’espressione delle proprie idee, seppur critiche e contrarie all’ordine costituito, sono lecite e ammissibili in uno Stato di diritto che si ritenga tale.